Manager
italiani emigranti a Londra
La lunga
lista degli emigrati in gessato blu. Manager
italiani emigranti a Londra
L’ultimo è Francesco Caio, da poco chiamato alla
guida di Cable & Wireless, ma la pattuglia di
manager italiani che all'estero hanno successo e
guidano colossi non è mai stata tanto folta. Spesso
hanno nomi che, a differenza di Caio, di Mario
Draghi al vertice di Goldman Sachs, di Paolo Scaroni
rientrato da Londra per guidare Enel, di Pasquale
Pistorio che a Ginevra è a capo di StM, o di Mike
Volpi che è al timone di Cisco, in Italia sono poco
noti. A Parigi operano Toni Belloni, del colosso del
lusso Lvmh, e il numero uno di Guerlain, Renato
Temerari. A Londra Vittorio Radice, appena nominato
executive director di Marks & Spencer. A Copenaghen
Francesco Ciccolella sta ricostruendo la Lego.
Sconosciuto anche Gianmario Tondato Da Ruos, che i
Benetton hanno appena paracadutato a capo di
Autogrill dopo averlo testato per due anni negli
Usa. Se però all'estero gli italiani colgono allori,
la situazione in Patria non sembra altrettanto
felice, tanto che il management di molte grandi
aziende è virtualmente sotto processo. Dal punto di
vista professionale vengono loro imputate carenze
nelle strategie di sviluppo di lungo periodo.
Carenze tradottesi nel declino della grande impresa.
Dal punto di vista morale, sono invece sotto tiro
per emolumenti a sei zeri ormai fuori scala rispetto
ai risultati aziendali.
«In momenti di contrazione il management italiano
soffre di carenze strutturali che hanno radici
culturali - dice il presidente della Sda Bocconi,
Severino Salvemini -. Gli italiani sono, in
generale, dotati di grande intelligenza, brillanti,
scaltri, determinati, veloci nel decidere. Sono i
più forti nei settori ad alto tasso di creatività,
di innovazione e di relazione ma hanno una scarsa
cultura dei processi ed evidenziano difficoltà a
lavorare in squadra». «Oggi - continua Salvemini -
il mercato chiede un profilo di manager con capacità
di cambiamento, grande attenzione economico
finanziaria, grande capacità di semplificare i
processi, di razionalizzare e riportare i bilanci in
attivo. Una tipologia che si rifà alla cultura
anglosassone dell'industria manifatturiera. Noi
paghiamo un po' la scomparsa delle scuole
manageriali della grande azienda».
L'assenza di scuole aziendali, fatte di lezioni in
aula ma anche di apprendistato quotidiano sulle
scrivanie, con dirigenti che plasmavano nel tempo
squadre di giovani, è uno dei sintomi maggiori del
malessere dell'impresa. «Perché non ci sono più le
scuole? Perché ormai si ragiona in termini di
brevissimo termine - sottolinea Michele Tedeschi,
una carriera ai vertici dell'Iri, e oggi presidente
di Siemens Spa -. Prima i manager si valutavano
sulle prestazioni economiche e sull'apporto
culturale all'impresa, quindi con parametri di lungo
periodo, oggi gli si chiedono risultati immediati. E
l'investimento sulle risorse umane è uno dei più
difficili, lunghi e costosi. Per questo le scuole
sono scomparse».
Il cambiamento di orizzonte, dal medio-lungo al
breve periodo ha portato con sé anche altre
distorsioni. Oltre ai salari mordi e fuggi, c'è
l'ansia da turnaround che si traduce in tagli
indiscriminati delle risorse umane e di quelle
destinate allo sviluppo.
«E' un problema di miopia strategica - taglia corto
Pier Luigi Celli, oggi capo della corporate image di
Unicredito - le aziende di successo sono quelle in
cui i vertici hanno più attenzione alle risorse,
all'innovazione e alla ricerca. E in cui non si
reprime il dissenso. E' un problema di uomini e di
squadre, non c'è dubbio».
Secondo Salvemini, il rischio è che le
ristrutturazioni gestite in modo ragioneristico, con
grande enfasi solo su tagli e risultati a breve,
finiscano per inficiare il valore a lungo termine
delle aziende. «Oggi - avverte - alla guida di
alcuni tra i più importanti gruppi italiani c'è chi
crede che si possa trascurare impunemente la
gestione delle risorse, quella delle condizioni di
innovazione e la ricerca e sviluppo. E'
preoccupante, perché se diventa lo stile manageriale
imperante, quando torneranno le condizioni per lo
sviluppo avremo aziende anoressiche, che non sanno
più ingrassare e non riusciranno a crescere».
Un problema, questo, che secondo il sociologo
Domenico De Masi, non sfiora neppure un certo
management. «Il loro arco temporale di previsione è
breve - dice - non gli interessa quello che farà
l'azienda fra 20 anni, non gli interessa togliere di
mezzo gente che potrebbe servire per la ricerca
scientifica, la formazione o per la creazione di
valore da qui a dieci anni. A loro interessa solo
alleggerire il bilancio di modo che il titolo in
Borsa salga». Per il momento, dunque, le forbici
sono ancora in azione, e il mercato del lavoro sta
rispondendo con quella che Celli chiama «fedeltà
coatta».
«Nessuno si muove perché non ci sono posti dove
andare, ma i danni dei tagli li vedremo quando il
mercato ripartirà - avverte Marella Caramazza,
direttore generale dell'Istud, la business school
legata all'Università Cattolica». In questo
contesto, la dinamica delle retribuzioni del top
management certo non aiuta. «Come si può pensare di
sottrarre tante risorse economiche dalle casse delle
aziende in un momento di crisi? Trovo moralmente
discutibile - continua Caramazza - il persistere di
compensi che vanno oltre ogni ragionevole
ragionamento sulla retribuzione equa».
Non tutti però si stupiscono. «In molti casi si
tratta di retribuzioni di connivenza, non di
efficienza - spiega Celli -. Perché il management
italiano ha avuto meriti indiscutibili, ma è stato
ignavo per tanti anni. Così è rimasto prigioniero di
un sistema che privilegia i clan, le appartenenze e
ha cercato a volte più le protezioni politiche, o di
famiglia, o di cordata, che i risultati. Non ci si
deve sorprendere di casi come quello Fiat, né che
uno dei responsabili è stato subito collocato come
amministratore delegato di Finmeccanica».
Nell'intreccio tra capacità professionali, etica
manageriale e moralità, mette ordine De Masi: «Tutto
questo si può pure fare ma il danno maggiore è se
viene ricoperto da un alone di professionalità e di
santità. In passato, i manager avevano una grande
dote: erano chiari con se stessi e con gli altri,
ora se rubano sostengono che lo stanno facendo per
accrescere il valore delle imprese».
Giovanni Paci
Tratto dal Corriere Della Sera
|
|