Un
primo ministro ebreo? Un britannico su cinque dice
no
LONDRA - Un suddito britannico su cinque non
vorrebbe avere un primo ministro ebreo e, anzi,
pensa che gli ebrei abbiano «troppa influenza» nella
vita del Paese. Uno su sette, poi, dice che
l’Olocausto è stato «esagerato». Ma una maggioranza
ampia non è d’accordo, ha superato i pregiudizi
razzisti o, perfino, non si cura del problema.
S’avvicina il Giorno della Memoria, che
nell’anniversario della liberazione di Auschwitz
celebra ogni 27 gennaio l’Olocausto, e il giornale
Jewish Chronicle pubblica i risultati di un
sondaggio che, dopo tante polemiche su ricerche
d’opinione dell’Unione Europea divulgate o rimesse
nel cassetto, prova a dire veramente quale sia lo
stato dell’antisemitismo in un Paese, la Gran
Bretagna, che è sempre stata terra di civile
convivenza.
Il ministro dell’Interno, David Blunkett, è
«profondamente preoccupato» da tali cifre perché,
dice, c’è chi s’illude che «i nazisti non siano come
li abbiamo conosciuti». Ma forse la sua è la
reazione di chi dev’essere preoccupato per mestiere,
indipendentemente dalle cifre, se il rabbino capo,
Jonathan Sacks, è meno allarmato: «Qualcuno dirà che
è la prova che in Gran Bretagna rimane un nocciolo
residuo di antisemitismo. Altri osserveranno che
essa rimane, con margine considerevole, una società
tollerante. Io, per quanto mi riguarda, scelgo il
secondo punto di vista». E aggiunge: «Non stiamo per
perdere l’eredità di Milton, di John Locke e di John
Stuart Mill».
Resta il fatto che, nella prospettiva di avere un
premier ebreo, sette interpellati su cento si dicono
contrari e 11 fortemente contrari. In totale, quasi
un quinto degli elettori voterebbe contro un partito
che ha un leader ebreo. E siccome il leader di quel
partito esiste ed è il capo dei conservatori Michael
Howard, ciò significa che la minoranza antisemita
potrebbe impedire l’alternativa di governo: ciò non
allarmerà il rabbino capo, ma rischia d’ostacolare
la democrazia. E poiché Sacks stesso lamenta l’islamofobia
crescente e i pregiudizi contro Sikh e induisti, non
è irrilevante il suo giudizio: «L’intera Europa ha
di fronte una serie di problemi razziali, religiosi
ed etnici di cui uno è l’antisemitismo».
Un tale problema è emerso ieri, quando un’esponente
del partito liberaldemocratico, Jenny Tonge, s’è
sentita chiedere dal suo leader, Charles Kennedy, di
lasciare l’incarico di portavoce per i problemi dei
minori dopo avere espresso comprensione per i
terroristi suicidi palestinesi: «Se vivessi in
quella situazione, e lo dico a ragion veduta, potrei
pensare di diventarne una io stessa».
Prevedibile la reazione di Kennedy, perché «non ci
può essere alcuna giustificazione, in alcuna
circostanza, per chi strappa vite innocenti con il
terrorismo». Ma interessante anche quella
dell’ambasciatore israeliano, Zvi Shtauber: «Capisco
che sia una questione di libertà di parola, ma mi
sarei aspettato anche compassione per le vittime dei
terroristi suicidi».
Certo, l’antisemitismo rimane. Resta la consolazione
che, alla domanda se gli ebrei diano contributo
positivo alla nazione, non ci siano solo risposte
negative o positive, ma circa il 50 per cento degli
intervistati dica di non preoccuparsene, nota con
soddisfazione Gerald Kaufman, un deputato ebreo
eletto in una circoscrizione con migliaia di votanti
musulmani. E può sollevare gli europei sapere che,
se 18 cittadini su cento credono che gli ebrei
abbiano «troppa influenza», il dato è inferiore
anche a quello degli Stati Uniti, che oscilla tra il
20 e il 25 per cento.
Resta il fatto che nemmeno oggi il Regno Unito
avrebbe un premier ebreo: è vero che
Benjamin Disraeli, nato da famiglia israelita, governò sotto
la regina Vittoria. Ma era stato battezzato e
cresciuto nella fede anglicana.
Alessio Altichieri
Gentilmente tratto dal quotidiano il Corriere Della
Sera
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