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►Londra tra realtà e invenzione
Londra tra realtà e invenzione
di Silvio Ramat (Il Giornale)
Riluttante
a qualsiasi radicale pianificazione urbanistica, Londra rifugge anche dal
lasciarsi bloccare in una formula speciosa. Titolare della nomea e del ruolo di
«capitale del mondo» per generazioni e generazioni, fino all’età vittoriana e
magari oltre, ha svelato per prima, in età moderna, e accentuato, le distanze e
i contrasti fra i ceti sociali, per via di un’espansione demografica superiore a
quella delle metropoli continentali (nel 1840 contava 1.900.000 abitanti).
«Londra tra realtà e invenzione» fu il tema di un convegno svoltosi
all’Università di Bari nel 2003; ora ne deriva un volume, edito da Marsilio,
curato da Mariella Basile Bonsante, storica dell’arte e autrice anche di
uno fra i più notevoli contributi (tredici) della raccolta. Impresa disperata,
stringere Londra in una definizione unitaria, e la miscellanea lo presuppone e
comprova, cercando piuttosto di tracciarne una mappa diacronica (a partire dal
secolo XVII) e, insieme, non riservando un’attenzione esclusiva alle arti. Così,
accanto ai debiti richiami al quadro politico-sociale in cui lavorano gli
artisti (uno è il leccese Antonio Verrio, che nel tardo Seicento dipinge per la
Corona a Windsor e in
Hampton Court: ne parla Mimma Pasculli Ferrara), il volume
include studi centrati sull’urbanistica.
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Le maestose stazioni ferroviarie si moltiplicano (King’s Cross, St. Pancras,
Euston...), segni e simboli di un "improvement" la cui energia sembra
inarrestabile nella seconda metà del secolo XIX, allorché al risanamento dell’inquinatissimo
Tamigi, dopo la cosiddetta "Grande
puzza", si comincia a provvedere con un adeguato sistema fognario: un’«opera
titanica» sulla quale ci dà ragguagli Pier Paola Penzo. Una città scandita nei
suoi ritmi proprio e anche dalla navigazione fluviale. I docks e gli slums, la
narrativa di
Charles Dickens
ce li ha descritti nella loro deplorevole miseria.
Aree relativamente più periferiche faticano a far posto alle numerose famiglie
sloggiate perché nuovi edifici sorgono sul sito di quelli ch’erano stati i loro
pur scomodi abituri.
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E sul Tamigi, affollata arteria di una città che esita a svilupparsi come
potrebbe verso Ovest (andranno poi a viverci esponenti delle classi agiate), si
specchiano le lussuose ambizioni dei ceti produttivi e, insieme, le piaghe di
una atroce diseguaglianza. Si fabbricano ponti su ponti, a snellire traffici man
mano più convulsi, ma non si sa o non si vuole bonificare le aree degradate.
Chi, nel secondo Ottocento, approda a Londra ne ricava quest’immagine multipla e
contraddittoria, come del resto è in sé contraddittoria l’idea di una «città
rurale»: una, peraltro lecita, inclinazione dei proprietari crea difatti e
mantiene larghi spazi verdi intorno alle nuove case. È il fenomeno degli squares,
che dal primo ’800 mirano a scoraggiare i contatti fra le classi medio-alte e
quelle popolari.
Se fin dal 1821 Géricault, l’autore della celebre Zattera della Medusa,
immortalava in una serie di litografie scene pittoresche quanto impietose di una
Londra «marginale» - se ne occupa Giovanna Sapori - cinquant’anni dopo, riflesso
di una metropoli che si è innalzata nel fasto ma non è guarita dei suoi mali
antichi, uscirà un testo memorabile, London. A Pilgrimage del giornalista
Blanchot Jerrold, corredato da 180 incisioni di Gustave Doré. Un catalogo
icastico dei divertimenti e dei patimenti, degli splendori e delle ombre di una
città che ininterrottamente si trasforma. È una documentazione capillare, da cui
trae spunto, nel 1874, il reportage commissionato dagli editori Treves a
Edmondo
De Amicis: dei suoi Ricordi di Londra sottoscriveremmo ancor oggi quel senso di
«capricciosa mescolanza di bello e di brutto, di magnifico e di povero, di
triste, di strano, di grande, di uggioso» che la città produce sul visitatore. E
si capisce come nasca l’utopia di una Londra «rifatta» a misura umana, abitata
da gente mite, svincolatasi dalla servitù del danaro e dalle convenzioni
costrittive che ci snaturano affannando le nostre giornate.
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È, nel 1890-91, la «Londra immaginaria» che il socialista William Morris,
innestandosi su una tradizione letteraria collaudata, affida alla potenza
palingenetica di un sogno nel romanzo News from Nowhere. Citavo l’«uggia» avvertita da uno scrittore italiano in trasferta a
Londra: suppongo che a quell’impressione concorresse la proverbiale nebbia del
luogo. A una simile coltre grigia, spessa e untuosa, i pittori s’ispirarono con
risultati di spicco: per chiarire l’esperienza londinese (1874-79) di Giuseppe
De Nittis, la Basile Bonsante guarda ad altri che, un po’ prima di lui, avevano
avuto un’appassionata consuetudine con quegli stessi cieli. Cieli che l’osannato
e talora contestato profeta Ruskin suddivideva in tre «zone», dannando gli
artisti contemporanei a cimentarsi con la più bassa, tutta pioggia e brume
stagnanti. Sono i successori di Constable, di Turner: da Whistler a
Daubigny a
Monet, ecco i più innovativi «ritratti» di quella metropoli che De Nittis
coglieva nella sua angosciosa malia di città industrializzata. Nel 1884, alla
vigilia della morte, discorrendone coll’amico scrittore Goncourt, ne rievocava
ancora «le brouillard noir». |
Un aspetto, la nebbia, che forse non compariva nei «panorami», ossia in quelle
vedute circolari a 360 gradi e senza neanche il limite della cornice ch’erano
state una geniale invenzione sull’epilogo del secolo XVIII. Questo genere di
«raffigurazione illusionistica», ebbe il suo
trionfo nel Panorama di Londra: panorama catturato dalla sommità della cupola di
St Paul. Lo si collocò nel Colosseum di
Regents Park nel 1829, ma all’opera
mancava l’ultima mano, sicché il pubblico poteva scorgere alcuni pittori di
servizio impegnati a rifinirla, precariamente sospesi a sottili cordami! Poi
venne la fotografia; più tardi il cinema, che tolse al «panorama» l’esercizio
della tecnica dell’immagine in movimento. Ma nel volume Giovanni Ottolini
preferisce soffermarsi, con incerto profitto, sulla Londra metaforica ovvero
«assente» in Blow up di Antonioni.
Dove Londra sperimenta o promuove o funge da scenario, si nota qualcosa di
incongruo, sia insufficienza o ridondanza. Ma è anche questo il suo «bello»: che
può esser funzionale o superfluo o meramente decorativo, come tanti degli
oggetti in mostra alle Esposizioni Universali (si comincia nel 1851 al Crystal
Palace; seguiranno Parigi e Vienna). «Dal cucchiaino alla città», intitola
felicemente il suo contributo Alberto Bagnara, che ci sospinge al cospetto della
regina Vittoria e del principe Alberto, raffigurati in abiti rinascimentali su
un cofanetto portagioie e quindi al revival delle patrie gesta, come nel vaso
monumentale dedicato alla Storia d’Inghilterra. Un’epoca - una nazione - si autocelebrava in più forme, e anche questo è indice di una libertà e varietà
vissute ed esibite in ogni campo, allora e dopo, a qualificare lo «spirito di
Londra»; se non a costituirne, in tutto o in parte, la «grandezza».
Vedi anche I segreti
di Londra di Corrado Augias
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