COOL BRITANNIA
Pianeta Londra
Scintillante come non mai. Tra super-mostre, grandi eventi,
ristoranti straordinari. Guida alle sorprese della metropoli
più affascinante d'Europa. Come un mondo a s?
di Mario Fortunato da Londra
Bisogna riconoscerlo: Londra non è una città facile. Non lo
?neppure topograficamente. Pensate alla confortevole, geometrica
semplicit?di Manhattan: difficile perdersi, nel cuore di New
York. Londra invece è un labirinto. Come una Los Angeles d'epoca
vittoriana, non ha uno, ma molti centri: andare da una parte
all'altra - da Notting Hill
a Islington, da
Chelsea
all'East End,
tanto per rimanere in zone piuttosto contigue - significa fare
un viaggio. A rigore, Londra Non è eppure una città ma una
regione: estesa, ramificata come la sua metropolitana (chiamarla
"The tube", prego).
Londra non è una città facile. Neppure i londinesi lo sono.
Appena sbarchiamo a New York, noi italiani ci sentiamo piacevolmente
accolti dall'inglese elastico come un chewing-gum che si parla
da quelle parti. A Londra no. Che sofferenza scoprire che il
corso di lingua fai-da-te Non è ervito a niente. Terribile
inciampare nella faccia educatamente stupefatta di chi non capisce
quello che stai farfugliando in un inglese approssimativo e
- ti rendi conto - pietosamente scolastico. E poi piove, il
cielo ?grigio, si mangia male e tutto costa tre volte che in
Italia. Londra non sarè una città facile ma davvero non si riesce
a capire perché gli italiani continuino a frequentarla (è una
delle mete turistiche privilegiate) e insieme a nutrire sul
suo conto una serie di convinti luoghi comuni inattaccabili:
una specie di catrame ideologico da cui non riusciamo a liberarci.
Cominciamo dal cibo. Per qualche ragione che deve essere almeno
in parte legata a ricordi di miseria thatcheriana, i nostri
connazionali sono persuasi del fatto che nella capitale inglese
si mangi mediamente malissimo. Reminiscenze di fish & chips.
Visioni di pub maleodoranti e piuttosto dark. Piatti a base
di agnello stagionato, condito con la temibile mint sauce o,
in alternativa, tacchino con cranberry sauce (che a noi appare
subito una minacciosa marmellata). E invece Londra è una delle
città dove si mangia meglio al mondo. Se si ?fissati con la
madrepatria, eccellenti (e costosi) ristoranti sono Zafferano
a due passi da Knightsbridge,
la Locanda Locatelli a Marylebone,
Carluccio
a Covent Garden.
A proposito di quest'ultimo, va detto che Antonio Carluccio
non solo ha distribuito un po' dappertutto in città dei suoi
caf?con prodotti di eccellente qualit?e prezzi contenuti,
ma è anche un benemerito del cibo italiano in Inghilterra: ?
autore di libri molto letti e amati, oltre che di trasmissioni
televisive seguitissime. Rimaniamo sul fronte italico: difficile
trovare una pizza più buona di quella di Sciu?Sciuè,
rumorosissima pizzeria dalle parti di Fulham Broadway,
o da Made in Italy, su King's Road, analogamente chiassosa.
C'?poi chi pensa di essere un intenditore. Soprattutto fra
gli intellettuali, capita di sentire che il miglior ristorante
italiano a Londra è il River Cafè, a Hammersmith. Non è vero ormai da anni. I prezzi sono scandalosamente alti e la
qualit??così scesa da aver riscosso negli ultimi tempi parecchie
riprovazioni giornalistiche. Continuare ad andarci è uno snobismo
imbecille.
Italia a parte, la scena gastronomica londinese ?così ricca,
complessa, insieme global e local, cosè straordinariamente sofisticata,
da essere difficilmente riassumibile in un articolo. Ci sono
vette assolute che meritano una menzione: il ristorante di
Gordon
Ramsey all'hotel Claridge's (cucina creativa,
europea, raffinatissima); il giapponese Nobu a due passi
da
Hyde Park
Corner; The Ivy a Covent Garden; la miriade di indiani
senza nome di
Brick Lane
o i libanesi più che a buon mercato di
Edgware Road;
Le caprice e il marocchino Momo a
Mayfair.
Basta così Anche perché lungi dall'essere un'esperienza esclusivamente
gastronomica, mangiare nei ristoranti a Londra possiede un tocco
compiutamente culturale: design sempre attentissimo, opere d'arte
alle pareti, video, installazioni. Altro che sedie impagliate,
fiaschi, corone d'aglio e peperoncino! Non è er fare gli antipatici,
ma quanto a d'or i ristoranti italiani sembrano non di rado
fermi a un gusto che definire r?ro è un affettuoso complimento.
Sfatato il primo, solito luogo comune, passiamo al secondo.
Abiti. Moda. La moda ?italiana, si dice più o meno a ragione.
E gli inglesi non sanno vestire (pensiero rapido ai colorini
pastello amati da
Elisabetta
II, per non parlare delle sue acide borsette). E
poi i prezzi. I prezzi sono da capogiro. Vero: a Londra i prezzi
sono alti. Ma fateci caso, se questo era verissimo ai tempi
della cara vecchia lira, con l'euro non siamo più così distanti.
I capi d'abbigliamento continuano a costare di più che in Italia,
ma ormai lo scarto ?sceso di quasi due terzi. La differenza
?che a Londra trovate giacche di Armani o borse di Prada che
a Milano o a Firenze non troverete mai. E il motivo ?semplice:
anche il made in Italy punta con prodotti più diversificati
a un mercato immensamente più grande, come ?quello londinese.
Nel campo della moda c'?poi una tenace convinzione italica
- di cui il giornalista Vittorio Feltri sembra essere il portabandiera
- che riguarda in particolare l'eleganza maschile. Si dice "all'inglese"
e si pensa a giacche di tweed, pipa, camicie e cravatte a righe
e quadrettini, gemelli da polso ma in stoffa, scarpe di camoscio,
gilet in comodo cashmere. Toni prevalenti fra la brughiera e
l'autunno. Una certa aria azzimata, fazzoletti da taschino.
I più informati citano i famosi sarti di
Savile Row,
da cui molti membri della
famiglia reale
si sono serviti. I parvenu pensano basti fare shopping da
Harrods, i celebri grandi
magazzini imbanditi di lucette tutto l'anno, in servizio natalizio
permanente effettivo. Ma vestirsi "all'inglese" e fare acquisti
da Harrod's non si può più neanche definire cheap: ?solo orrendo.
Giusto in campagna ci si concia a quel modo. Lo stile londinese
?casomai un miscuglio di minimal e stravaganza: date un'occhiata
ai modelli di Nigel Hall e
Paul Smith.
E dire che basterebbe così poco. A un tiro di schioppo da Harrod's,
a due passi dal kitsch più sfacciato e d'od' c'?Harvey
Nichol's: altro grande magazzino, ma molto en vogue (brunch
domenicale al quinto piano e visita alla moda più tendenziosa
e avventurosa, nel sotterraneo).
Londra è una meta culturale, si dice. Ed ?vero. I libri vengono
pubblicizzati in metropolitana, i giornali se ne occupano in
prima pagina. I musei funzionano, mostre in continuazione. Soprattutto
di arte contemporanea. In questi giorni, precipitarsi alla
Tate Modern:
non tanto per l'omaggio a Barnett Newman (facile, noioso), quanto
per l'enorme installazione di Anish Kapoor nella Turbine
Hall. L'opera si intitola "Marsyas" ed ?- come definirla? -
una membrana di gomma rossa di una cinquantina di metri, che
si svasa e si stringe, alludendo a forme organiche o a una cornetta
del telefono: un bizzarro giocattolone sinuoso e avvolgente.
Mentre si inaugurava con straordinario successo Kapoor (esperimento
che ci piacerebbe si realizzasse anche da noi, e che fa capire
quanto l'arte contemporanea sia a Londra un linguaggio amato
e democratico) per una settimana Tracey Emin (artista ancora
giovane, il 10 novembre si ?aperta una sua mostra al Museum
of Modern Art di Oxford) ha diretto il "Weekend"
del "Guardian", cioè il settimanale illustrato di uno dei più
importanti quotidiani inglesi, scegliendo temi e foto, facendo
titoli e sommari, discutendo gli articoli con i giornalisti.
Risultato: un numero da collezione.
Poco cinema, a dire il vero: troppi film americani che soffocano
il mercato e nessuno vuole più vedere (e infatti: un flop dopo
l'altro, l'ultimo era la consueta polpetta spielberghiana "Minority
Report"). Poco cinema, molto teatro, si dice. Ma qui un altro
mito va sfatato. Da qualche anno, le scene del West End londinese
sono letteralmente invase da produzioni e divi americani (Glenn
Close, Woody Harrelson, la stessa Madonna, Tobey Maguire, Kyle
MacLachlan, Nicole Kidman, Elaine Stritch, ora si annuncia anche
Leo DiCaprio). Gli inglesi resistono, malamente. Tutti osannano
il canadese Robert Lepage con la sua "Casa Azul" al Lyric Hammersmith
mentre la Trilogia russa di
Tom Stoppard,
regia di Trevor Nunn messa in scena al National Theatre, è un
fiasco: esclusa la prima parte, le altre due hanno mietuto sbadigli.
Forse è ancora presto per dire di "Breath of Life", gran debutto
insieme di due dame autoctone come Judi Dench e Maggie
Smith, per?pubblico e giornali intanto trepidano per la
prima assoluta di "Galileo Galilei" dell'americano Philip Glass
al
Barbican. E in fondo, il vero successo del momento
è un musicals
tutto indiano: "Bombay Dreams" all'Apollo Victoria, scatenato
e divertente, un autentico spasso.
Del resto, Londra non si cura troppo (e per fortuna) di nazionalit?
e provenienze geografiche. ?e rimane il più antico e finora
riuscito esempio di melting-pot. Il che, in tempo di razzismi
e xenofobie, è un bel vanto. Perci?l'Italia e gli italiani
continuano a essere adorati dai londinesi. Qualche esempio?
Con l'aperitivo il massimo dello chic ?offrire fettine di pane
da intingere in una coppetta con olio d'oliva extravergine;
il nuovo mensile "Italy" è un successo in edicola (250 mila
copie); libro hit: "Baudolino", di Umberto Eco.
Gentilmente tratto dal settimanale
L'Espresso
05.12.2002